La storia di Maria, bambina di origini pakistane: alla morte del padre si prende cura dalla mamma malata che non parla italiano. Dieci anni dopo racconta un’adolescenza che non c’è mai stata

A 10 anni si va a scuola, si gioca, si comincia a diventare autonomi. Ci si prepara all’adolescenza. Una fase della vita priva di responsabilità. Non per Maria. Era il 2011. I suoi 10 anni sono segnati dall’angoscia e dalla responsabilità. L’angoscia: il padre, ad appena 45 anni, muore; la madre, 35, ha e avrà una vita minata da tubercolosi, diabete, due infarti. La responsabilità: la madre non parla italiano ed ha solo lei. Maria esce traumaticamente e in un attimo dall’infanzia. Diventa, anche se allora ne ignorava il significato, una piccola caregiver. Con un problema aggiuntivo: la sua è una famiglia pakistana che non ha legami nella città, Bologna, in cui vive.
“Sono arrivata in Italia quando avevo 8 anni – ricorda Maria. Mio padre era immigrato 10 anni prima e lavorava in una ditta di trasporti. Due anni dopo morì. Era l’unico a lavorare e non solo: mia madre stando quasi sempre in casa ad occuparsi delle faccende domestiche e della famiglia, non ebbe molto tempo libero per imparare la lingua. I miei fratellastri si sono allontanati anche perché c’era solo la figura di nostro padre a tenerci uniti. Io e la mamma rimanemmo sole”.

Il bivio era rimanere a Bologna o tornare in Pakistan:

“lei comprese che io avrei potuto avere in Italia un futuro migliore. La sua famiglia insisteva per un ritorno in quella che loro consideravano casa. Impensabile due donne sole, una madre e una bambina, in un altro paese. Ma lei accettò di rimanere qui e so che lo fece per me”.
Maria, 10 anni, si assume tutte le responsabilità che ne conseguono. “Non si trattava solo di fare da interprete ma di gestire la vita quotidiana di tutte e due. La accompagnavo dai medici e in realtà ero io che discutevo con loro. Questo creava problemi perché non solo i dottori ma anche gli altri adulti avevano dubbi e difficoltà a rapportarsi con una bambina. Qualcuno si arrabbiava anche, soprattutto al telefono, insistendo per parlare direttamente con la mamma”.

“Era angosciante andare con mia madre dal medico. Mi prendeva il panico prima delle visite. Tentavo in ogni modo di farla andare da sola”

Mese dopo mese, anno dopo anno, il peso psicologico diventa enorme.

“Ho cominciato a sviluppare ansia e lievi sintomi di depressione anche se ero troppo piccola per capire cosa mi stesse accadendo. Poi nel pieno dell’adolescenza, che è già di per sé una fase colma di cambiamenti e dubbi, vissi periodi di profonda depressione e smarrimento, segnati da domande sulla mia identità e dal senso di solitudine, arrivando ad isolarmi nella mia stanza per mesi, non mettevo piedi fuori di casa. Iniziai ad avere problemi anche a scuola. Mia madre era chiusa nella sua bolla e io ero il suo ponte con il mondo esterno”.
Per Maria non è facile portare nella sua infanzia e adolescenza le responsabilità di una donna adulta: “era angosciante andare con mia madre dal medico. Mi prendeva il panico prima delle visite. Tentavo in ogni modo di farla andare da sola: da bambina qual’ero mi inventai anche la richiesta di farmi “pagare” nell’illusione che la mamma facesse a meno di me per le visite”. Anche la scelta della scuola superiore deriva da questa situazione: “mi sarebbe piaciuto fare il liceo artistico oppure lo Scientifico ma questa scelta non mi avrebbe garantita una qualifica per trovare lavoro e sostenere le spese della casa e della vita”.

Oggi Maria ha 20 anni. Frequenta il quinto anno delle superiori e il corso per la qualifica da operatrice socio sanitaria.

Non c’è orgoglio per quello che ha fatto: “avrei preferito un’infanzia normale. Non auguro a nessuno un’esperienza come la mia. è da quando ho 12 anni che tutti mi dicono che sono matura per la mia età e questa maturità l’ho guadagnata a spese di quel futuro sereno che quella bambina si era immaginata. Qualche volta penso che preferirei essere più ignorante e più spensierata… ma in fondo, senza questo passato, non sarei la persona che sono oggi e onestamente penso che quella bambina sarebbe fiera di quel che sono diventata, quel genere di persona che avrebbe voluto al suo fianco per rassicurarla”. è complicato avere anche un riconoscimento dei sacrifici fatti: “sono consapevole che ho fatto quello che andava fatto e, ancora oggi, non riesco ad immaginare un’alternativa. Mia madre non è perfettamente consapevole dei problemi psicologici che questo tipo di vita mi ha creato. Dal suo punto di vista stare bene vuol dire essere in salute fisica e vestire in modo dignitoso. Il resto, quello che si ha dentro, conta poco”.
Maria ammette che solo da poco ha iniziato a pensare alla sua di vita. “Presa la qualifica, spero di trovare un lavoro ed essere in grado di contribuire economicamente, mentre proseguo con gli studi per realizzare i miei progetti. Un futuro tutto mio? Non senza la mamma. Noi abbiamo un legame molto forte e non la lascerò mai da sola: forse lo faccio per dovere, certamente per amore nei suoi confronti”.

Il progetto MeWe l’ha aiutata.

“Molto. Sono stata tra le prime ad essere coinvolte e all’inizio, essendo il modello basato tra l’altro su tecniche di mindfulness, ho trovato molti elementi simili al buddismo, una dottrina di vita alla quale mi ero già avvicinata. Penso all’importanza dell’ascolto, del silenzio, dell’osservare il viavai dei propri pensieri, del distacco da quella voce interiore che avverte il costante bisogno di giudicare e di criticare per alimentare la rumorosa fabbrica di pensieri che è la nostra mente. è stata un’esperienza bellissima che per me si è conclusa ma mi auguro continui per altri adolescenti. Nella speranza che nessuna bambina viva mai un’esperienza simile alla mia”.

“Gli adulti avevano dubbi e difficoltà a rapportarsi con una bambina. Qualcuno si arrabbiava”