È nel reparto psichiatrico dell’ospedale del Valdarno, a Montevarchi. Qui si fuma e ci si racconta scrivendo e disegnando

È una stanza d’ospedale. Diversa da tutte le altre. Qui si fuma: quando si vuole. Si disegna: sul muro e quando si ha voglia. E’ la stanza dei pazienti della psichiatria dell’ospedale di Montevarchi in provincia di Arezzo, Azienda USL Toscana sud est. E’ la loro. Qualcuno racconta: “Lavinia si è ricoverata spontaneamente xché ha paura a stare a casa sua”. Qualcuno riflette: “quella mattina mi svegliai libero, la sera mi addormentai prigioniero”. Qualcuno insegna: “i problemi che abbiamo non possono essere risolti con la stessa mentalità con cui li abbiamo creati“. C’è chi disegna: Tabatha è una di loro. Sul muro c’è una ragazza che tiene per mano il suo dottore. Nell’altra mano ha, al guinzaglio, un mostro. “Il dottore è lui” e indica lo psichiatra Giampaolo Di Piazza. “Il mostro sono le mie paure, quelle che sono sempre con me”.
33 anni, bolognese, adesso barista in Valdarno. “Quando disegno non penso ad altro”. Disegna sui muri, sui fogli, sul suo corpo. I tatuaggi le lasciano libero il viso e poco altro. Quando dice il suo nome, Tabatha, lo deve spiegare. “Era la figlia di una strega”. E la memoria va ad una serie tv della fine degli anni settanta, “Vita da strega”. Il nome corretto sarebbe stato Tabitha ma è un dettaglio secondario. Le cose che contano sono altre. Ad esempio che sua madre era chiamata l’alchimista. “Da bambina prendevo anch’io quello che preparava”. Due sorelle. Una vita legata o meglio negata a lungo dalla tossicodipendenza. “Non ho avuto un’infanzia difficile, l’ho avuta traumatica”. Poi un compagno, un matrimonio, un divorzio. Il trasferimento in Valdarno. Due figli, adesso di 9 e 7 anni. Una vita che, a soli 30 anni, le ha presentato un prezzo spezzando precari equilibri psicologici. Quindi prima un ricovero e poi un altro al servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale di Montevarchi. “Si è dimostrata una persona decisa ad andare oltre, ad avere un rapporto di affetto con i suoi figli, a ricostruirsi, o forse addirittura a inventarsi, una vita – sottolinea Giampaolo Di Piazza. E’ decisa a dare ai suoi figli quello che non ha avuto lei”. Il rapporto con il marito è rimasto buono: “io lo chiamo ancora così, nonostante il divorzio e lui si arrabbia un po’ ma mi aiuta. Dice sempre che in 10 anni di matrimonio, ha conosciuto 10 diverse me. Ho accettato che avesse l’affidamento esclusivo dei nostri figli”.
Fatica a raccontare. “Ma adesso ricordo. Piano piano, pezzo dopo pezzo. Fino a quando non ero venuta qui, non ricordavo nulla della mia infanzia. Adesso ho smesso di drogarmi, ho allontanato le voci dalla testa, sto recuperando i miei ricordi e la mia vita”. E disegna: “quello che sono, quello che ricordo che ero.

Disegno soprattutto il mondo che vorrei”. Nella sala tatuata ci sono lei, Di Piazza (“il dottore che mi ha salvato”) e il mostro. Ma anche due ragazzine che tengono un filo con un piccolo cuore e una testa di leone: “l’avevo promesso a Morena, la OSS, che mi sosteneva emotivamente dicendomi che stavo lottando come un leone: prima delle dimissioni, l’ho disegnato”.
La storia della vita di Tabatha è in questa stanza al quarto dell’ospedale del Valdarno. “Avevamo iniziato con una lavagna – ricorda Giampaolo Di Piazza. Poi non è stata sufficiente ed abbiamo lasciato che i ricoverati usassero i muri, senza alcun controllo o divieto da parte nostra. E’ così che è diventata la stanza tatuata. Chi disegna va oltre ciò che racconta nei colloqui. Ci possono essere anche banalità ma la profondità di ciò che viene scritto e disegnato continua a sorprendermi. Ci sono pazienti che raccontano con il disegno la destrutturazione della loro personalità. E hanno il coraggio di farlo in pubblico: non scrivono un diario privato chiuso da un lucchetto ma lo fanno sul muro di un luogo pubblico dove tutti possono vedere e leggere”. Nuovi legami tra pazienti e operatori ma anche tra gli stessi ricoverati. “Qui nessuno si sente una monade. C’è chi continua la frase di un altro, chi la commenta, chi la prosegue. Anche nelle condizioni di maggior sofferenza, riescono a entrare in relazione tra loro su questo muro, aprendosi al dialogo”.
Un’esperienza che ha registrato la condivisione e l’entusiasmo degli operatori. Questo è un piccolo reparto con 7 posti letti e con servizi territoriali collegati che sono a San Giovanni e nella stessa Montevarchi. Psichiatri, infermieri, operatori sanitari leggono su questo muro ciò di cui sono assolutamente convinti e cioè che una persona è molto di più della sua diagnosi.

Tabatha: la mia storia

“Di Piazza mi ha insegnato a parlare, a guardarmi dentro, solo così ho tirato fuori i ricordi che non vedevo più, solo così ho sconfitto le voci che dominavano ogni mia azione, solo cosi ho combattuto i mostri che avevo dentro.”

Apatia, anaffettività, autolesionismo, abuso di alcool e droghe, voci nella testa, ricordi dell’infanzia confusi, quasi assenti, due figli meravigliosi, metà vita sprecata, sopra e sotto la pelle cicatrici profonde che non si rimarginano con un po’ di disinfettante e un cerottino, ti cambiano, ti plasmano. Ecco chi era Tabatha, prima di tentare il suicidio con la macchina perché era stanca, perché nonostante i suoi trent’anni sentiva di averne addosso troppi e non sapeva perché… una famiglia creata da amare ma non riusciva più a dare tutto come voleva perché il dolore interiore la stava massacrando, nessuno alle spalle che la sorreggesse… così è sopravvissuta, così è arrivata a urlare forte aiutatemi, salvatemi, devo salvarmi per dare la vita che meritano ai miei figli: anche se per me è tardi, per loro no.
Il Di Piazza, l’uomo che mi ha salvato la vita, mi ha raccolta, ascoltata, compreso che non era la bulimia, l’anoressia, l’alcool o le droghe il mio problema, ma c’era altro. È andato a fondo, mi ha “aperta” mi ha insegnato a parlare, a guardarmi dentro, solo così ho tirato fuori i ricordi che non vedevo più, solo così ho sconfitto le voci che dominavano ogni mia azione, solo cosi ho combattuto i mostri che avevo dentro. Con lui parlavo, piangevo, crollavo, chiedevo di morire e venivo cullata, riportata ogni volta a capire che sarei riuscita a ripartire, nonostante tutto.
Dentro la psichiatria, nella stanza fumo, con pochi barattoli di colore da bambino, quelli che si usano con le mani e qualche pennarello, ho sfogato i miei demoni, e i miei pensieri felici; stavo lì seduta in terra, ascoltavo la mia musica e pensavo ai miei figli; aspettavo, guardavo cosa facevano le mie mani, iniziavo ogni disegno senza sapere cosa la mia anima avrebbe creato.
È stata una cosa di condivisione e affetto incredibile da parte di ogni infermiere e oss, che vedeva che non mi sarei alzata di lì dalla mattina alla sera; mi portavano al pomeriggio l’orzo senza zucchero come piace a me e mi sorridevano, mi consolavano.
Ho fatto sì che altri ragazzi prendessero i colori in mano e dicessero “posso??” – “certo fai pure” rispondevo e cosi sono nate amicizie all’interno del reparto.
Le due ragazze legate da un filo, siamo io e la mia ex compagna di stanza, con la quale ho condiviso cose incredibili, irripetibili: fu lei la prima a farmi alzare dal letto mentre piangevo, si avvicinò dolcemente a me e mi chiese “ti piace ballare??”.. così nacque un legame fortissimo tra noi, la mattina appena sveglie ballavamo, quando avevamo più energie, poi io mi chiudevo a disegnare e lei stava li con me.
Il leone invece l’ho fatto perché la nostra oss, la “mamma” di tutte noi, Morena, mi disse che non sarei uscita fino a che non l’avessi disegnato, perché è così che ho lottato.
Cosa posso dire di questa esperienza oltre al fatto che mi ha salvato la vita??
Posso dire che è una casa, che ci sono tornata una seconda volta in un momento di forte sconforto e se ne avessi bisogno lo farei ancora, che il mio dottore, il mio mentore, il mio salvatore per me è ineguagliabile e insostituibile e lo ringrazierò a vita, che ogni donna e uomo che lavora dentro quel piccolo reparto mette amore in ciò che fa ed è stato prezioso e mai lo scorderò.
Hanno salvato me e così facendo il futuro dei miei figli.
E per questo, ogni mercoledì continuo, e continuerò a sedermi davanti al mio dottore, e ogni volta che mi alzerò dirò grazie.

I servizi Asl Tse

L’organizzazione dei servizi di Salute Mentale del Servizio Sanitario Nazionale prevede un’integrazione e un’articolazione degli operatori, dei luoghi e dei modi di accoglienza sia nel territorio che all’interno delle strutture ospedaliere dove, a partire dalla Legge Mariotti del 1968 e poi “la 180” del 1978 (legge Basaglia), ritroviamo il reparto di psichiatria, definito Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC). Nel corso degli anni, ricovero dopo ricovero i pazienti accolti presso il SPDC di Montevarchi hanno scritto, disegnato e stratificato sulle pareti della “stanza fumo” le loro parole, riflessioni, aspettative e desideri: in sostanza senza una regia o una guida, tra una sigaretta e l’altra, hanno creato un collage a più mani. Questo murales, in continua evoluzione e, quindi, vivo e vitale, ha sicuramente una funzione comunicativa ed evocativa: i disegni e le parole dei pazienti ci chiamano in causa e ci parlano delle loro esperienze, certo anche di sofferenza e malessere ma, allo stesso tempo, prendiamo atto di come un monologo apparentemente disarticolato si possa trasformare in un dialogo corale a più voci che, nel suo complesso, sembra assumere una valenza artistica. Come Azienda USL Toscana sud est intendiamo quindi valorizzare la dimensione di opera di gruppo (di pazienti) di questo murales che fa pendant e rispecchia le quotidiane azioni di squadra realizzate dal personale della Salute Mentale.
Quanto viene qui presentato è uno stralcio o, meglio, un condensato di quella articolazione dell’organizzazione dei servizi di salute mentale di cui disponiamo: in base ai bisogni ed al livello di sofferenza del cittadino possiamo offrire spazio di ascolto, confronto e cura presso i Consultori, le Unità Funzionali Salute Mentale Infanzia/adolescenza o Adulti, le Comunità o le Residenze Terapeutico/riabilitative, i Centri Diurni, gli SPDC. Da oggi abbiamo una conferma: ai cittadini, proprio nel momento sfavorevole della malattia, siamo in grado di offrire uomini e donne, nel ruolo di operatori, che mantengono viva l’arte della cura attraverso la sensibilità, l’intuito, la capacità di rispettare ogni forma di comunicazione, anche quella nata spontaneamente all’interno di una stanza di SPDC.
Ieri, i pazienti della salute mentale, senza volerlo (o forse si?) ci hanno offerto il dono di questo murales espressione della loro capacità di resilienza: oggi come Azienda USL Toscana sud est abbiamo il compito di mantenere integri e salvaguardare il senso ed il significato di questa opera collettiva, comunicativa ed artistica. Domani, ne siamo certi, con l’abituale passione e dedizione continueremo a rintracciare quanto, anche tra le righe o nella penombra delle emozioni, i pazienti cercano di comunicarci, fosse anche sottovoce o tra le spirali di fumo di questa “stanza tatuata”.