La scelta di Luca Trapanese di far crescere una bambina down: “non dobbiamo sperare che i nostri figli siano i primi e i migliori, dobbiamo far sì che siano felici”

Parlare con Luca Trapanese è come aprire una finestra sulla nostra società in una limpida mattina in cui puoi vedere in lontananza i campi fioriti, il mare e il sole all’orizzonte, ma al tempo stesso questa limpidezza ti fa vedere l’immondizia in fondo alla strada e la sofferenza di un senzatetto. Luca è una persona che ha deciso consapevolmente di dedicare la sua vita a far si che quei prati fioriti arrivino fin sotto le nostre finestre e lo fa’ da sempre senza sconti per sé e per gli altri. Napoletano, profondamente innamorato della sua città, dopo tanti anni di impegno nella creazione e sostegno a progetti sociali per persone disabili, (progetti mai abbandonati) oggi è stato chiamato dal Sindaco di Napoli Gaetano Manfredi a guidare l’Assessorato alle Politiche Sociali della metropoli partenopea. Il suo nome, nel 2018, è comparso nelle cronache nazionali quando ha adottato la piccola Alba, bambina affetta dalla sindrome di down abbandonata dalla madre e rifiutata da molti. Questa storia, che diventerà anche un film dal titolo “Nata per te” per la regia di Fabio Mollo, ci pone difronte alle nostre percezioni sulla disabilità, al valore che diamo alla felicità e al futuro dei figli. La storia di Luca parte dal suo impegno in ambito sociale a tutte le latitudini.
“Viaggio molto fin da quando avevo 14 anni, prediligendo i paesi in via di sviluppo, in particolare amo l’India e l’Africa, dove ho svolto da sempre attività di volontariato coordinando progetti molto importanti e collaborando anche con le suore di Madre Teresa. Senza dubbio la mia storia è particolare ma non lo è affatto la mia voglia di paternità. Credo che il desiderio di genitorialità sia naturale, e se vogliamo anche egoistico, ma è un sentimento sano per tutti gli esseri umani perché abbiamo questo innato desiderio di eternità che ci contraddistingue e del quale i figli sono l’elemento principale e sul quale vogliamo costruire una società del futuro.”

Arriva Alba

“Ricordo ancora che quando mi hanno chiamato per comunicarmi dell’adozione ero in vacanza con 20 ragazzi disabili tra cui tanti con la sindrome di down. Ero felice, preparato e consapevole, così come tutta la mia famiglia. Tutti parlano della straordinarietà della mia storia ma io la definirei semplicemente fuori dall’ordinario, e solo perché la situazione di Alba l’ha resa tale. Lei è stata partorita in ospedale e affidata all’ospedale dalla madre naturale. Alba aveva solo 27 giorni e nessuna coppia che la voleva adottare. Questa situazione ha fatto sì che io subentrassi come possibile opzione di adozione. Il rischio era che Alba finisse in una casa famiglia e, se non mi fossi fatto avanti, probabilmente oggi sarebbe ancora in un istituto e avremmo perso tante opportunità sia noi che lei, occasioni per essere una famiglia e costruire assieme una vita felice. L’arrivo di Alba in casa, come figlia, è stato simile a quello di tutti i bambini: tanta emozione, trambusto e cose da fare. Certo la sua specificità ci ha molto responsabilizzato, ad esempio abbiamo iniziato a fargli fare sedute di logopedia e psicomotricità già a sette mesi, oppure ricordo di non aver aspettato neanche un giorno per presentarmi a chiedere la 104 per l’invalidità.”

“In una società che ci spinge alla ricerca della perfezione, quando poi nella vita arriva un figlio disabile come fai a raggiungere quel modello? Questo è ciò che fa più paura della disabilità.”

La disabilità fa ancora paura

“Viviamo in una società che ci spinge con forza verso la ricerca della perfezione, che ci educa ad avere sempre standard alti. Pensiamo, ad esempio, a come è stato rinominato il Ministero dell’Istruzione: hanno aggiunto la parola “Merito”, ma il merito te lo dà la vita e quello che diventi. Alba potrebbe essere meritevole perché un giorno, nonostante la sua sindrome di down, può diventare una grande atleta, o una fotomodella o forse la migliore barista di Napoli. Non dobbiamo sperare che i nostri figli siano i primi e i migliori, dobbiamo far sì che siano felici e pienamente se stessi con tutte le loro disabilità, perché, sia chiaro, siamo tutti disabili. Nessuno può stabilire cos’è la normalità. Quindi la questione è semplice: se tu mi spingi tutti i giorni alla ricerca della perfezione, ricercandola nel corpo, nella casa, nella macchina, nel lavoro, quando poi nella vita arriva un figlio disabile come fai a raggiungere quel modello, come fai a far vedere alla società che tuo figlio è l’espressione migliore di te? Questo è ciò che fa più paura della disabilità. A ciò dobbiamo aggiungere la solitudine, l’abbandono da parte della società di tutte queste famiglie. Perché la verità è che un genitore deve pensare a suo figlio disabile da quando nasce fino a quando lui morirà ed in questo viaggio le famiglie sono completamente sole.”

La disabilità e la confusione del bidone della spazzatura

“Prima di parlare di disabilità dobbiamo partire da un presupposto fondamentale: non è corretto mettere nel bidone della spazzatura, dove ci buttiamo tutto, la parola disabilità. Un luogo dove inseriamo indistintamente mia madre che non cammina bene e mia figlia che ha la sindrome di down, una persona autistica o una con la carrozzina, un non vedente e una con malattie rare. La disabilità è diversa da persona a persona e le risposte dovrebbero essere quantomeno catalogate in maniera differente. Invece è tutto molto generalizzato e non ci sono le risposte adeguate, non tanto per il singolo caso ma neppure per le macroaree della disabilità.

L’ipocrisia delle adozioni

Quando mi hanno individuato come potenziale genitore di Alba non mi hanno fatto nessuno sconto perché lei era disabile. Sono stato sezionato al pari delle altre coppie dopo una serie di incontri serrati con assistenti sociali, psicologi, colloqui ed ingressi a casa. Se potessi avviare una nuova pratica di adozione io sceglierei ancora un figlio disabile. Per me non è stata una scelta di serie b, ma è stata la mia scelta. Ma la domanda che mi viene di fare è questa: perché mi avete valutato abile per una bambina disabile che, probabilmente avrebbe bisogno di una rete genitoriale ancora più ampia, forse anche con quattro genitori? E, quindi, se mi avete valutato idoneo a questo impegno così serio e ponderato perché non posso essere altrettanto idoneo per adottare un figlio cosiddetto normodotato? Questa è una grande ipocrisia rispetto all’adozione dei single e non ne faccio neppure una questione di omosessualità perché io non sono stato giudicato come omosessuale ma come Luca, con la mia capacità genitoriale, quella di sostenibilità economica, della mia predisposizione alla persona disabile. Oggi il problema delle adozioni non riguarda i piccoli appena usciti dal reparto maternità, ma soprattutto bambini di 3, 4, 5 o 10 anni che hanno vissuto esperienze terribili e per i quali il tribunale talvolta ha bisogno di avere risposte diverse rispetto alla famiglia, cosiddetta, tradizionale perché ogni bambino è una storia a sé che non può essere generalizzato. Faccio volutamente un esempio forte: immagina un bambino che ha subito violenza dalla madre, magari può trovare la forza di essere amato da un single maschio. Ogni vita è una storia a sé. Quando si parla di aprire l’adozione ai single innanzitutto dobbiamo ricordarci che la società è cambiata, che la famiglia perfetta delle pubblicità non è mai esistita ma ha retto perché c’era una cultura di mantenimento, poi è arrivato il divorzio che si può essere in altro modo, culture e religioni diverse. Non dobbiamo tutelare le famiglie tradizionali ma le famiglie.

La speranza ed il futuro

Io spero che Alba sia vista come Alba, come una persona e non come la bambina, la ragazza, la donna handicappata. Spero che i figli siano visti come figli e non come figlio mio o figlio tuo: se non iniziamo a vederli come figli di una comunità, come l’idea del villaggio dove condividere i problemi, le gioie, le angosce, i figli sono i nostri. Questa è l’unica possibilità che abbiamo di salvare questa società.