In Amiata giungendo da Asuncion o da Roma. A 40 anni o a 27. Per coltivare o allevare. Per far vivere il bosco, per non abbandonare la montagna

Per tanti anni mi sono occupata di agricoltura, di foreste, di pesca, e mi sono battuta molte volte affinché nelle immagini che la raccontano non ci si limitasse alla terra, agli edifici colonici, alle strade bianche, ai cipressi che, ad esempio in Toscana, tanto fanno sognare i turisti stranieri. Non si può raccontare la terra senza volti, mani, corpi. Si perché la terra, il paesaggio, il disegno delle colture, sono parto di fatica, scelte, ostinazione, storie. Anche in questi mesi abbiamo pianto morti per le conseguenze di bombe d’acqua e di frane. Ancora una volta non sempre avendo chiaro quanto la mancata cura della terra, assieme agli abusi e alla cementificazione delle aree, continui a favorire disastri. Oggi, più di ieri. Cura è una parole splendida. Richiede amore, partecipazione, impegno. Come le donne insegnano, è sentimento e fatica. Se si ha la pazienza di scavare un pò, di leggere i dati, cosi come di percorrere qualche scomoda strada bianca in auto, si possono mettere in fila le storie, i volti, le ragioni per cui con più e meno successo, con più e meno fatica, si cerca di “non far venire giù” le montagne. Quando nel 2020 è stata uccisa Agitu ideo Gudeta, etiope, rifugiata in Italia, allevatrice di una razza di capre autoctone, in molti hanno scoperto (chi frequentava slow food o Donne in Campo lo sapeva da tempo), che la sua attività di allevatrice e trasformatrice, in una montagna non facile, su cui in pochi avrebbero osato, aveva invece contribuito all’economia locale in aree disagiate, e aveva creato lavoro. Ho spulciato più volte i dati sugli investimenti delle donne nelle aree rurali, e constatato quanto giovani e donne, con coraggio, provano a scommettere sui territori più difficili. E l’ostinazione delle donne, forse la loro anima, fa frequentemente la differenza nel rapporto con la terra. Basta cercare, ascoltare. Con pazienza. E se ne hanno le prove. Ecco alcune storie dell’Amiata. Diverse. Ma tutte hanno a che fare con la terra, con le scelte di vita. E con l’anima.

Rossana Suh. Dal Paraguay a Saragiolo per amore.

Ciò che ti cattura di Rossana è prima di tutto il suo contagioso sorriso combinato a quegli occhi figli di una terra lontana e di un incontro tra Paraguay e Corea. Mi ha molto incuriosita sin dalla prima volta che l’ho incontrata, circondata dai suoi bambini, quando mi ha regalato una confezione dei suoi mirtilli. La sua è una storia con tanti ingredienti: il volontariato, la fede, la generosità, la malattia, la fiducia negli altri. Nata poco più di 40 anni fa ad Asuncion, da madre paraguaiana e padre coreano, Laureata in economia aziendale, inizia prima come volontaria e poi lavorandoci, ad impegnarsi presso la Fondazione “San Raffaele” di don Aldo Trento, proprio ad Asuncion. È li che, occupandosi soprattutto di bambini in difficoltà, inizia a conoscere famiglie Italiane, e impara la loro lingua. Grazie alla permanenza nella fondazione di una famiglia amiatina in Paraguay per una complessa adozione, conosce quello che diverrà suo marito: Mattia, imprenditore nella forestazione, una delle attività tradizionali e fondamentali in montagna. Rossana si trasferisce in Amiata nel 2009, si sposa, ha tre fantastici bambini e si innamora anche di quella montagna. Nel bosco, accompagnando il marito e il suocero al lavoro, scopre quei rossi frutti di bosco, per lei sconosciuti. E da lì decide che “tutto quel dono” che secondo molti non valeva nulla, poteva invece essere valorizzato. Impara a cucinare dolci con quei frutti, a trasformarli. Grazie al premio giovani nel 2019 avvia un’importante produzione di mirtilli bio, in quota. Con il marito acquista 6 ettari di olivastra a Seggiano. Superficie che ospita anche piante con qualche secolo di vita. Diventa socia e animatrice del frantoio. Le sue colture le riconosci anche dalle grandi pietre dipinte in modo multicolore, come le etichette del suo olio Evo. Ma non è finita qui. Ci sono altri progetti in campo che Rossana e Mattia hanno avviato: l’impianto di vitigni a 1100 metri e, sempre a quella quota, la semina del grano Senatore Cappelli, di orzo, di segale, di avena. La ristrutturazione di un casale per farne un agriturismo capace di offrire sosta a chi a piedi, o in bici, percorre l’anello della montagna. In tutto il suo racconto, nell’allegria con cui parla dei progetti che vuole realizzare, della sua vita, della sua famiglia, della Montagna come fosse la sua terra da sempre, nella luce che appare nei suoi occhi, anche quando ti racconta dei problemi, della burocrazia, degli ostacoli, appare la forza che spinge questa sua attività. Rossana crede nella “provvidenza”, ma anche nella potenza dei sogni, delle comunità locali, della solidarietà. Di quella comunità, della solidarietà, dell’impegno per la montagna lei è innegabilmente una protagonista.

Elena e Saeka. Quando non basta impegnarsi sui principi.

Elena è giovanissima, vive a Campiglia d’Orcia, classe 1995. Titolare di Impresa da poco più di un anno. Elena, come molti figli di agricoltori, è stata quasi spinta dai genitori ad occuparsi di altro, a studiare, formarsi, cercare la sua strada lontano dalla montagna e dall’agricoltura. Infatti Elena parte, frequenta l’Università. Studia e si laurea in traduzione e interpretariato.

“Non basta dire che occorre investire sulle aree interne e sulla montagna ma bisogna provare a fare qualcosa. Se tutti i giovani se ne vanno, restano solo i discorsi”

E’ una giovane donna molto convinta delle potenzialità delle aree interne, della montagna. Mi racconta che un giorno si è detta che “non si può solo raccontare nei convegni che occorre investire sulle aree interne e sulla montagna, bisogna provare a fare qualcosa, e se tutti i giovani se ne vanno, non provano a realizzare progetti, restano solo i discorsi”. Per questo Elena decide di tornare e di restare. Studia management e marketing per le imprese vitivinicole presso l’università di Firenze e subentra al padre nella piccola impresa di famiglia che produce vino ed olio. Oggi, invertendo i ruoli, lei è la titolare di impresa ed il padre coadiutore. In cantiere c’è la nuova cantina. Elena è anche anima sociale e politica della sua comunità, riferimento di altri ed altre giovani. Ne ho testimonianza anche mentre chiacchieriamo nella sala degustazione, assaggiamo i suoi vini ed arriva a trovarla Saeka, impegnata nel circolo Arci del Paese e imprenditrice. Anche lei, dopo una esperienza professionale in una impresa nella piana fiorentina decide di tornare a Campiglia e di avviare una esperienza imprenditoriale nel settore della cosmesi, investendo però sulle risorse del territorio, il vino, il miele, l’olio di oliva che utilizza nei suoi prodotti per il viso. Fili, relazioni, la terra, e l’anima. Giovani donne. La potenza della loro energia e quel legame con la terra.

Giovanna e Tinti, una vita ad investire su valori e qualità.

A Seggiano, sul versante Grossetano dell’Amiata, trovi l’azienda di cui sono titolari Giovanna de Cora e Tinti de Vitis. La loro è una storia di ostinata ricerca e convinzione per la qualità, la biodiversità, la salvaguardia di razze autoctone a rischio di scomparsa. Entrambe romane, approdano in Amiata nel 2005. Gianna una laurea in pedagogia, Tinti studi in medicina interrotti per un pesante incidente. Vite intrecciate da una solida amicizia sin dagli anni ’60. Studiano e lavorano. Insegnano entrambe per alcuni anni nella scuola per l’infanzia. Ma soprattutto Giovanna si dedica anche all’azienda di famiglia e all’allevamento dei cavalli. Nel 1996 interrompono le loro precedenti vite per avviare nella provincia romana un’azienda agricola in cui allevano la pecora “Sopravvissana”, salvandola dall’estinzione, e il “cavallo Italiano”. Progetti ambiziosi, importanti, purtroppo fermati da una storia di altrui e poco sani appetiti su quelle terre, di furti, reti tagliate, incendi, attentati che alla fine le costringono a vendere. E’ cosi che Giovanna e Tinti giungono in Amiata, con il ricavato non ricchissimo di quella vendita non voluta, ma senza rinunciare alla loro passione per la terra e per l’allevamento. “Per me la campagna è sempre stata il luogo della libertà”. Cosi mi ha riposto Gianna quando le ho chiesto perché alla fine tutta questa ostinazione nel voler continuare a gestire un’impresa agricola e ad allevare. A Seggiano hanno recuperato un suino in cui credono molto, “la Macchiaiola”, poi cavalli, capre, un orto. Una strada impegnativa quella da percorrere in auto per arrivare da loro, un panorama da mozzare il fiato quando ci sei, di quelli che sei costretta ad osservare in silenzio, respirando profondamente quasi fino a commuoverti. Tanti progetti per l’agricoltura e per le persone (Tinti è una brava terapeuta), e tante difficoltà. Le ho seguite a lungo nel loro progetto per la macellazione etica, un progetto irto di passaggi burocratici infiniti, ma anche in quel caso una convinzione assoluta nel perseguire risultati necessari per attenuare lo stress degli animali prima della macellazione. Oggi l’allevamento dei suini è una realtà. Un prodotto di assoluta qualità, forse superiore ad altri suini allevati allo stato brado, quello della “Macchiaiola”, non semplice da commercializzare.

Nella loro storia ho trovato purtroppo tanti attori attivi nel porre ostacoli, ma anche persone e alcune istituzioni sinceramente impegnate nel sostenerle. Non si sono mai fermate. Nemmeno oggi e nonostante tutto. Provando a formare giovani competenze cui, in un futuro non troppo lontano, cedere l’attività, partecipando a progetti, coinvolgendo associazioni, fondazioni capaci di sostenere l’impresa e raccoglierne gli obiettivi di qualità e sostenibilità. Senza perdere il coraggio, senza perdere la speranza. Con l’ostinazione propria di chi crede nei propri progetti.