È lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze. Una grande storia di quasi 2 secoli al servizio del Paese. Adesso è anche il primo e unico soggetto autorizzato alla coltivazione e alla produzione di cannabis terapeutica.

Nelle serre bianche spiccano i prati verdi delle piantine dalle foglie a ventaglio, coltivate tutte in fila in una terra che dicono sia tutta artificiale, perché non deve essere in alcun modo contaminata da pesticidi. Quando ti affacci ti arriva addosso un odore forte e intensissimo che ti entra nel naso, ma un po’ anche nella testa. Tutto è computerizzato, tutto è blindato e videosorvegliato.
Mi è capitato varie volte, qualche anno fa, di visitare, da consigliere regionale impegnato nella causa della cannabis terapeutica, lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze (SCFM). Ad illustrare il progetto sono medici che camminano con gli anfibi e che sotto il camice, da cui spuntano stellette, indossano la divisa dell’esercito. Con loro altri esperti e collaboratori dell’università.
Lo stabilimento nacque a Torino con un regio decreto di Carlo Alberto di Savoia del 1832 per produrre i farmaci per i soldati ma, nel 1931, venne trasferito a Firenze. Spazi enormi al chiuso e all’aperto, padiglioni immensi e lunghi e larghi corridoi, dove camminando fra alambicchi, distillatori, vecchie boccette di medicinali sistemate in vetrine di legno come in un museo, sembra di percorrere anche un pezzo di storia.
È qui che nacque il laboratorio del chinino di Stato, tuttora prodotto, per curare la malaria, così come, durante le due grandi guerre, è stato questo il luogo che ha assicurato la fornitura di farmaci. Lo Stabilimento ha svolto inoltre un ruolo fondamentale in occasione di varie emergenze sociali e sanitarie: durante l’alluvione di Firenze fornendo la cloramina per potabilizzare l’acqua, nel corso del terremoto del Friuli supportando le attività di protezione civile e qualificandosi, a seguito dell’esplosione di Cernobyl, come l’unico stabilimento in Europa in grado di produrre centinaia di migliaia di pillole di ioduro di potassio in tempo record. Ancora adesso, infatti, lo stabilimento è il detentore di scorte nazionali di antidoti per veleni, attacchi terroristici, calamità nucleari e, persino in tempo di covid, si è prodigato velocemente nella produzione di reagenti, gel e disinfettanti.

Assieme ad un’ottima cioccolata, dentifrici e prodotti di igiene, tuttora, qui dentro si producono i farmaci orfani, ossia quelli destinati alla cura di malattie rare. Si tratta di produzioni che le private farmaceutiche abbandonano perché non convenienti da un punto di vista economico ma che restano indispensabili per la sopravvivenza di alcune persone. Produzioni che non sono state fermate nemmeno durante il lockdown.
Nel 2014, con l’accordo fra i Ministeri della difesa e della sanità, lo Stabilimento Farmaceutico, aggiunge però un’altra attività che segna quasi una rivoluzione: diventa il primo e unico soggetto autorizzato alla coltivazione e alla produzione di cannabis terapeutica, gettando così le basi per quella che avrebbe potuto essere davvero la svolta in tema di diritto alla cura. Un progetto pilota che partì fin da subito con impegno e ambizione mettendo a punto un procedimento di produzione, come spiega il biologo Giogio Faggiana, assai sofisticato.
Le talee vengono irrigate attraverso una precisa programmazione al computer e, per quanto riguarda la fase delicatissima dell’illuminazione, ogni 12 ore si alternano nelle serre lampade rosse e blu determinando un fotoperiodo, ossia cicli giornalieri di luce necessari alle piante per raggiungere la perfetta maturazione. Essiccate, triturate e lavorate, le piantine finiscono poi in barattolini tondi di plastica da 5 grammi di cannabis. Successivamente sarà il medico che prescriverà il dosaggio ad ogni singolo paziente, tenendo presente che la cannabis potrà essere somministrata come tisana dalle infiorescenze secche oppure come gocce di una soluzione di olio di oliva. Un lavoro regolato da protocolli precisi di Regioni e Ministero della Salute e che, trasforma un prodotto con caratteristiche qualitative molto elevate e standardizzate, svolgendo anche un ruolo di calmierazione dei costi a carico di sanità e pazienti che non sarebbe possibile con una produzione privata.

Il problema è che a fronte di una richiesta di somministrazione crescente, la produzione nazionale della cannabis continua ad essere fortemente insufficiente. Basta parlare con alcuni pazienti per capire quanto sia difficile e non sempre possibile reperire i farmaci a base di cannabis. Parlano di forniture a singhiozzo o di interminabili tempi di attesa per chi deve iniziare la terapia.
Se nel 2020, a fronte di 1 tonnellata circa di fabbisogno, la coltivazione da parte dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze si è aggirata intorno ai 150 kg, ricorrendo per il resto al mercato estero, le preoccupazioni aumentano pensando che il fabbisogno che fra il 2022 e il 2025 sembra stimarsi intorno alle 3-4 tonnellate.
Certo, l’accesso al farmaco dipende dalle Regioni ma, al netto di competenze gestionali e programmatiche più o meno incisive, il dato certo è che la produzione nazionale deve essere aumentata.
Uscendo dallo Stabilimento Farmaceutico ho sempre avuto la consapevolezza di un luogo dotato di spazi e strutture, altissima competenza e professionalità. Un grande potenziale che, considerata l’emergenza di tanti pazienti in attesa del farmaco, deve essere messo a frutto assieme alla verifica di altri possibili canali produttivi. Il prezzo che paghiamo per questa inerzia è quello di vedere pazienti che stremati dal dolore e dalla sofferenza finiscono per rivolgersi al mercato clandestino o magari all’autocoltivazione, percorso tuttavia che considerata la l’estrema variabilità nel contenuto di THC e CBD nelle inflorescenze, non è in grado di assicurare un prodotto con un contenuto di principio attivo costante. In sintesi, dovendo il medico conoscere la quantità esatta di molecola contenuta nell’inflorescenza secca, sarebbe fondamentale che le piante venissero coltivate in modalità estremamente controllata e senza contaminazioni.

“Aumentare la produzione di cannabis terapeutica e regolamentare consumo e coltivazione sono opzioni urgenti. Servono decisioni, servono leggi, serve uno scatto culturale.

E come se non bastasse, in caso di autocoltivazione, al prezzo si aggiunge quello che Roberto Saviano chiama il paradosso: chi viene trovato in possesso di marijuana recuperata dal mercato illegale rischia multe, ritiro della patente o inserimento in servizi per le tossicodipendenze, chi la coltiva a casa per curarsi rischia il carcere. Un’assurdità inaccettabile che rischia quasi di favorire il mercato illegale delle mafie.
È lo Stato, ripeteva il biologo Faggiana mostrandoci, le serre ancora insufficienti, che ha il dovere di assicurare la quantità di cannabis necessaria al fabbisogno dei pazienti. Aumentare la produzione di cannabis terapeutica e regolamentare consumo e coltivazione di cannabis sono dunque e in ogni caso due opzioni urgenti. Servono decisioni, servono leggi, serve uno scatto culturale.
Purtroppo il parere di Inammissibilità
della Corte Costituzionale ha bloccato il risultato dell’imponente adesione al referendum. Ma la battaglia dovrà continuare nella società civile ed auguriamoci ancorpiù nel Parlamento.
L’obiettivo rimane la legalizzazione della piccola coltivazione per i pazienti sottoposti al trattamento
dei farmaci cannabinoidi.
Se Cavour coltivava cannabis nelle sue tenute e Garibaldi indossava braghe di canapa, la storia del nostro paese non può arretrare a visioni culturali più prossime a quelle di Mussolini che dichiarò l’hascish “droga da negri”. Penso a Walter De Benedetto e ai tantissimi malati che tribolano per poter recuperare un farmaco sicuro e spesso assai meno problematico in termini di effetti collaterali, rispetto ad altre molecole.
Penso che il loro dolore non debba più aspettare.