77 anni, sotto i bombardamenti, in fuga da Kharkiv in pullman, a piedi e in braccio a un soldato polacco

“Chi annaffierà le mie rose?”. Taisa ha 77 anni. Dopo 13 giorni di bombardamenti ha lasciato la sua casa nella zona residenziale di Kharkiv. Lo ha fatto con questa domanda. Con una borsa in mano, in viaggio verso la Polonia dove l’attendeva una delle figlie, Svetlana, per portarla in Germania. Un lungo viaggio con un piccolo pullman, l’ultimo tratto a piedi prima di varcare il confine e poi, sfinita, in braccio ad un soldato di frontiera polacco.
“Ho parlato con mia sorella – racconta Viktoria, in Italia da 27 anni. Mi ha raccontato che non è riuscita a riconoscere subito la mamma, tanto era smagrita e disidratata”.
Viktoria era rimasta in contatto telefonico e video con lei per i primi giorni di guerra. Poi nessun collegamento, nessuna notizia. Solo una grande e incontenibile angoscia: “per giorni non ho né mangiato né dormito”.
La guerra era arrivata improvvisa e inattesa: “ci eravamo sentite la sera prima dell’invasione russa. Era stata a cantare con il coro della città. Sul letto ho visto il vestito che avrebbe indossato il giorno dopo per un altro concerto. Stava bene. La sua vita era quella di sempre: la casa, la spesa, il coro, le amiche del palazzo. Era attiva e non aveva voluto lasciare la sua casa per andare o in Germania con mia sorella o in Italia con me”.
La mattina del 24 febbraio. “Ho ascoltato la notizia alla televisione. Ho visto che mia madre era connessa a Internet e l’ho chiamata. Si sentivano, vicini, gli spari e le esplosioni delle bombe. Ho implorato mia madre di andare via, di lasciare la casa e l’Ucraina. Ma lei mi rispondeva che non sapeva come fare ad andare via. C’erano i bombardamenti e le strade erano pericolose in ogni ora del giorno”.
Per una famiglia come la sua l’attacco era impensabile: “io sono nata quando c’era ancora l’Urss. La mia famiglia è ucraina ma si parlava russo e l’ucraino l’ho studiato a scuola: era una materia facoltativa e quindi nemmeno obbligatoria. Sono diventata ingegnere. Per me che sono nata nel 1969 ma ancora di più per mia madre e per la sua generazione, era impensabile una guerra della Russia contro di noi”.
Impensabile ma reale. “Mia mamma e tutti i residenti del palazzo sono scesi nei sotterranei. Umidi, freddi e bui. Da noi la temperatura, in inverno, scende a 15 gradi sottozero. Gli allarmi erano continui e quindi hanno vissuto quasi ininterrottamente negli scantinati per alcuni giorni. Poi mia mamma e altri anziani non ce l’hanno fatta più e sono risaliti negli appartamenti. Si sdraiavano sotto gli stipiti dei muri portanti: gli avevano detto che in caso di esplosioni, sarebbero stati un po’ più al sicuro. Sdraiati per terra, senza riscaldamento, senza energia elettrica, con il continuo assordante rumore degli aerei e delle bombe. Senza poter parlare con noi figlie. Quindi sola e terrorizzata non sapendo se e quando tutto questo sarebbe finito”.
Al tredicesimo giorno la svolta. Una giovane vicina di casa ha ancora l’auto. Si apre un corridoio di fuga. Prima in auto e poi in pullman verso la Polonia, verso la figlia Svetlana, verso la salvezza in Germania. “Lei come altri anziani non sono andati in treno. Le voci e le immagini che circolano erano di masse di persone accalcate prima nelle stazioni e poi sui treni”.
L’ultimo tratto di strada ucraina, Taisa la percorre a piedi. “Mia sorella, con la quale era stata nei mesi estivi, non l’ha riconosciuta tanto era dimagrita e spaventata. Adesso è in Germania al sicuro. Da tutto ma non dagli incubi che le ha creato la guerra. Ha paura degli aerei, di ogni rumore forte che possa ricordarle l’esplosione di una bomba. Non riesce – e noi con lei – a capire come tutto questo sia accaduto. Quando si sveglia deve fare i conti con una vita, la sua vita, che non c’è più e che forse non ci sarà più. Non sappiamo se il nostro palazzo è ancora in piedi. Nei primi giorni, quando ancora ci potevamo collegare con Internet, mi faceva vedere i disastri del palazzi crollati vicino a lei. E’ difficile non pensare alla vita di prima. Si chiede chi annaffierà le sue splendide rose alle quali teneva tanto. Pensa alle scarpe nuove che aveva appena comprato e che sono rimaste a Kharkiv. Alle due pentole nuove che non potrà mai usare”.
A Kharkiv sono rimaste alcune amiche di Viktoria: “ci siamo sentite i primi giorni, poi ho perduto i contatti. Sono donne come me: avevano una casa, una famiglia, un lavoro. Una vita che, alla luce di quanto è accaduto, era perfetta. Adesso hanno perduto tutto. Forse anche la vita. Certo non hanno più sogni ma solo incubi. E vogliono – io con loro – solo una cosa: la pace”.