Barbara Mamone racconta i traumi dei richiedenti asilo e dei rifugiati

Centro di salute mentale, Villa Pizzetti, Grosseto

Lo sanno che sarà un viaggio di solo andata. Quasi certamente non rientreranno, almeno per molti anni, nel loro paese. La destinazione è prima di tutto un’idea: vita degna, libertà, futuro. Si lasciano dietro quella specie di vita che non riescono più ad accettare e si mettono in viaggio. Attraversano il deserto e arrivano in Libia: qui vengono rinchiusi, umiliati, percossi, talvolta uccisi. Poi dal mare di sabbia a quello d’acqua: una nuova scommessa di sopravvivenza. Alla fine, per chi è fortunato, l’idea si materializza sotto forma delle coste italiane. Qui spesso l’ospitalità è organizzata in luoghi chiusi e isolati in attesa che le pratiche burocratiche consentano di essere liberi in un nuovo mondo che è più portato a respingere piuttosto che ad accogliere. Il prezzo della libertà, per loro, è attraversare l’inferno. Sono i rifugiati politici e i richiedenti asilo. Su di loro le ferite fisiche e psicologiche che la vita di prima e il viaggio di ieri ha lasciato.
“I nostri pazienti – ricorda l’etnopsicologa Barbara Mamone – sono i migranti forzati. Non possono restare in Europa senza avere un buon motivo che impedisca loro di rientrare in patria, senza dimostrare che la loro vita sarebbe in pericolo se decidessero di farlo. Già questa condizione crea malessere. Sono chiamati a dimostrare che sono fuggiti per sopravvivere e lo devono ad un sistema di accoglienza che può avere tempi burocratici anche lunghi a seconda del carico di lavoro che preme sulle commissioni territoriali. Può succedere che le strutture in cui vengono accolti siano isolate e purtroppo alle volte non ben servite dal trasporto pubblico. Questa situazione non facilita la possibilità di movimento dei richiedenti asilo, determinando uno stato di isolamento e non promuovendo dunque un reale processo di integrazione nel tessuto sociale. Il risultato è che rimangono a lungo in uno stato di sospensione, in attesa del documento che gli consenta di essere liberi e di ricostruirsi un proprio mondo”.
In questa condizione di disagio, fanno i conti con le ferite del viaggio. “Dopo avere attraversato il deserto, sono giunti sulla costa libica e qui, nella maggior parte dei casi, hanno subito di tutto. I racconti dei pazienti descrivono torture, maltrattamenti, violenze, stupri. Non c’è nessuno che non abbia vissuto traumi destinati a restare in maniera indelebile nella propria memoria”. Le narrazioni delle donne e degli uomini che si rivolgono a Barbara Mamone raccontano di lager a poca distanza da casa nostra. “Vengono incarcerati, lasciati letteralmente a macerare in situazioni tragiche: un bagno per centinaia di reclusi, niente letto, poco da mangiare, ambienti sporchi segnati dalle feci e dalle urine di tutti. Alla mercé delle guardie. Non sono rari i casi di donne che rimangono incinte e partoriscono senza assistenza. Per le donne il rischio, che è quasi una certezza per molte, è di essere sfruttate per la prostituzione. Si può essere uccisi se la famiglia non paga quanto richiesto per essere scarcerati. E il corpo può essere seppellito, o per meglio dire gettato, dove capita, senza segni e senza memoria”.

“Le sofferenze del cuore e del corpo: dolori a pancia, cuore, genitali, testa, articolazioni. Sono i risultati delle torture subite durante il viaggio.”

Sbagliato pensare che casi come questi siano le eccezioni. Per capire l’entità del bisogno, basti pensare che da inizio progetto FAMI SPRINT, da luglio a dicembre dello scorso anno, ci sono state più di 250 segnalazioni e circa 230 prese in carico, di cui i due terzi rappresentati dalla popolazione maschile, in un range di età prevalente che va dai 17 ai 32 anni.
“La maggioranza delle persone che accedono al servizio sono uomini ma questo non vuol dire che le donne abbiano meno bisogno di aiuto. Solo che loro fanno meno rumore, creano meno problemi, meno frequentemente degli uomini compiono gesti violenti o clamorosi. Sono ancora più invisibili, spesso sotto il ricatto del mondo della tratta e della prostituzione, attirano meno l’attenzione degli operatori. Per contro quando questo avviene, le situazioni che si presentano sono altamente complesse, perché spesso le donne sono responsabili di bambini molto piccoli, neonati o sono in stato di gravidanza. Ed è piuttosto frequente che il quadro di sofferenza che presentano sia accompagnato da violenze e abusi fisici e psichici”.
I sintomi sono i racconti delle sofferenze e dei traumi subiti. “Non parlano l’italiano o lo parlano molto poco ma il corpo lo fa per loro. Le parti maggiormente investite sono pancia, cuore, genitali, testa, articolazioni, per cui le indagini mediche e radiologiche spesso danno esito negativo oppure sono da ricondurre alle torture subite durante il viaggio e in modo particolare in Libia. A questo si possono aggiungere malattie infettive contratte a causa delle condizioni igienico sanitarie improprie, in cui si sono trovati a vivere per lunghi periodi. Le persone, che vengono segnalate dagli operatori, sono chiuse in se stesse, hanno difficoltà ad alzarsi dal letto la mattina, non riescono ad attivarsi oppure, all’inverso, presentano agitazione e ansia. Frequente è l’insonnia con incubi, spesso gli stessi che si ripetono e che raccontano dei traumi subiti al paese di origine o relativi al viaggio migratorio”.

Per poter rispondere a quadri complessi che richiedono il coinvolgimento di professionalità diverse e diversificate, è necessario costruire modalità e prassi complesse di presa in carico e di intervento. “In primo luogo – ricorda Barbara Mamone – quando siamo convocati per un presa in carico su segnalazione, coinvolgiamo i servizi che già sono implicati o che vanno coinvolti nel rispondere ai problemi di questi pazienti: la salute mentale che si occupa di adulti, di bambini/e e adolescenti, i servizi per le dipendenze, la medicina ospedaliera e territoriale (medici di medicina generale, pediatri), i servizi sociali, i centri per l’impiego, le scuole (alfabetizzazione, conseguimento del titolo di terza media, formazioni professionali) nonché gli operatori che si occupano della parte legale e giuridica. E’ un’attività che si svolge su tutto il territorio regionale, in ognuna delle tre aree vaste (Centro, Nord Ovest e Sud Est). Obiettivo è mettere a punto un progetto socio terapeutico di presa in carico che analizza la situazione, attiva la rete dei servizi e propone risposte che possano promuovere un livello di benessere finalizzato ad una reale integrazione e inserimento nel contesto in cui si trovano. Fondamentale è attivare un processo di “negoziazione”, una sorta di tavolo diplomatico, che permetta al paziente di essere protagonista attivo attraverso il recupero delle sue competenze. Questo implica considerare che il rifugiato o richiedente asilo non è una tavoletta vuota su cui scrivere ma ha una sua cultura, una propria visione di mondo che riguarda tutti gli ambiti della vita. Per questo motivo è così importante oltre che la figura del mediatore linguistico culturale, anche dell’antropologo. Per fare un esempio, in tutto il mondo ci sono le madri ma il modo di essere e di fare la madre in ogni cultura ha le sue specificità, che vanno capite per non cadere nella tentazione di definire cattiva madre tutto ciò che si discosta dalla nostra concezione dell’essere una buona madre”.
Barbara Mamone chiarisce che l’etnopsicologia non è rivolta esclusivamente ai migranti, a coloro che arrivano da mondi altri: “si rivolge a tutti perché tutti gli umani sono dotati di una psiche e di culture. Non parliamo della cultura con la C maiuscola ma delle culture che, nel corso della vita a partire dalla nascita, “fabbricano” ognuno di noi in modo diverso. Nascere in Toscana non è la stessa cosa che venire al mondo nell’altopiano del Dogon in Mali. In ogni cultura esiste un modo diverso di concepire la vita, la morte e i passaggi; un modo specifico di intendere i bambini, la famiglia, i rapporti di parentela, le relazioni di genere, il mondo visibile e invisibile. Un modo distintivo di vedere la malattia, sia dal punto di vista materiale che immateriale, le terapie, i dispositivi della cura e chi li rappresenta. Le diversità sono infinite. Si può mangiare a tavola seduti su una sedia, oppure a terra su un tappeto. Una madre può portare il figlio piccolo su un passeggino oppure sulla schiena avvolto in una fascia di tessuto. Una sofferenza psicologica può essere determinata da un conflitto inconscio oppure dai djin, entrambi rappresentanti della componente invisibile o immateriale dell’umano. Molti anni fa in una grande città italiana, un figlio fu sottratto alla madre perché un giudice considerò il portare il figlio sulla schiena un segno di incuria. Ma domandiamoci quale effetto avrebbe un passeggino spinto in avanti in una comunità, in Africa ad esempio, per la quale il bambino sulla schiena potrebbe essere segno di protezione da parte della madre che “precede” e quindi difende il piccolo”.
Non comprendere e non considerare attivamente le altre culture genera malintesi e conflitti che spesso producono ulteriori patologie e psicopatologie mettendo l’accento sull’effetto alle volte iatrogeno dei dispositivi della cura.
Barbara Mamone evidenzia l’importanza della convergenza di professionalità diverse. “Il mediatore linguistico culturale non svolge solo il ruolo di traduttore ma rappresenta il mondo del paziente e gli permette di esplicitarlo attraverso il ricorso alle forme linguistiche specifiche attraverso cui le culture si esprimono. L’etnopsicologo non può conoscere tutte le culture ma deve possedere una modalità di indagine della “fabbricazione culturale” dell’altro che ha di fronte, e il mediatore, su cui l’etnopsicologo si appoggia, consente al paziente di fidarsi e di affidarsi al terapeuta. Altra figura fondamentale è quella dell’antropologo. La presenza della prospettiva antropologica esplicita il posizionamento decentrato del dispositivo etnopsicologico e fa spazio alla legittimità, alla eguale importanza e alla eguale veridicità delle diverse prospettive che possono emergere. Nello stesso tempo lavora per costruire ponti tra le diverse ipotesi e posizioni, fa emergere, dietro alla distanza, le questioni e le preoccupazioni universalmente condivise”.

Sandra Chukwu, mediatrice linguistico culturale
Giulia Almagioni, antropologa

Barbara Mamone

Psicologa e psicoterapeuta, sin dalla fine dell’università si è occupata di migrazione e di migranti nella propria attività clinica. Formata alla terapia analitica, presso la LISTA di Milano, e alla psicologia clinica, presso la facoltà di medicina e chirurgia di Torino, ha approfondito l’etnopsichiatria frequentando il Centre Devereux di Parigi, fondato da Tobie Nathan negli anni ‘80. Ha lavorato in molti servizi della salute mentale adulti sul territorio torinese, dall’ospedale al carcere, con un’attenzione particolare ai migranti in condizioni di vulnerabilità psicologica afferenti ai reparti e ambulatori delle malattie infettive. Da quando opera sul territorio toscano, collabora con il Centro Studi Sagara, per cui è docente nel percorso di formazione per etnopsicoterapeuti ed è presidente dell’associazione ORISS (organizzazione interdisciplinare sviluppo e salute), che ha operato in Africa, in Asia e in Sud America. È attualmente coordinatrice clinica regionale del progetto SPRINT.

Il progetto FAMI SPRINT

“Un servizio per migranti in situazione di vulnerabilità psicopatologica. E’ stato promosso dalla Regione Toscana. Seconda edizione.”

Da luglio 2021 sono riprese le attività del progetto FAMI SPRINT (servizio di presa in carico dei migranti in situazione di vulnerabilità psicopatologica), alla sua seconda edizione dopo un’interruzione che ha coinciso con i due anni di pandemia. La Regione Toscana ha promosso la continuazione delle attività del progetto per rinforzare una strategia complessiva di sostegno alla presa in carico psicologica di richiedenti asilo, titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati presenti sul territorio regionale. Il progetto, attualmente in corso di realizzazione, si avvale di personale formato con una pluriennale esperienza clinica, di intervento e di ricerca nel campo della salute mentale dei migranti forzati: etnopsicologi, antropologi culturali, educatori professionali, mediatori linguistico-culturali e operatori legali. L’attività si sviluppa grazie al lavoro di equipe mobili multidisciplinari che operano sul territorio regionale, interfacciandosi con gli operatori dei servizi, con le accoglienze, le commissioni territoriali, le prefetture attraverso interventi diretti alla presa in carico complessa e integrata degli utenti e interventi indiretti di formazione e supervisione degli operatori. Questa prospettiva concorre allo sviluppo di modelli operativi innovativi nel campo della salute mentale pubblica e di comunità. Responsabile scientifico e ideatore del progetto è Giuseppe Cardamone, psichiatra e psicoterapeuta, Direttore dell’Unità Funzionale Complessa salute mentale adulti e, al contempo, Direttore dell’Area salute mentale adulti dell’Azienda USL Toscana Centro, da sempre impegnato nel campo dell’etnopsichiatria e dell’etnopsicologia.

Edvige Facchi, Responsabile UFSMA di Grosseto