Castelfranco Emilia, il carcere che ospita un call center dove lavorano i detenuti

“Uno sguardo insolito sulla casa di reclusione di Castelfranco Emilia caratterizzato da fasci di luce e da colori che suscitano forti emozioni ma anche sentimenti di positività e armonia. Uno sguardo che apre alla quotidianità della vita degli internati e dei detenuti e che, metaforicamente, penetra nel loro vissuto e nelle loro speranze all’interno di una struttura chiusa per sua natura che, tuttavia, può diventare un’opportunità concreta di lavoro, di formazione professionale, di istruzione e di crescita personale”.
È quanto si legge nella pagina di presentazione del calendario che ci mostrano appena arrivati. Poche frasi che raccolgono l’ambizione di Maria Martone, direttrice del carcere di Castelfranco Emilia che ci accoglie e ci accompagna nella nostra visita.
L’istituto di cui è responsabile è un luogo di detenzione un po’ speciale, almeno nel nostro Paese. Infatti, nonostante la nostra bella Costituzione, all’articolo 27, ci ricordi che la detenzione deve essere pena e riabilitazione, nella maggioranza dei casi si limita a pena e vendetta. Le nostre galere si fanno raccontare spesso per criticità di sovraffollamento, episodi di violenza e numero enorme di suicidi. Le opportunità di riabilitazione e lavoro, invece, sembrano essere inversamente proporzionali.
Castelfranco Emilia, da qualche anno, però, prova ad essere un’eccezione.
L’Istituto è caratterizzato da un regime “aperto”, e gli attuali 77 detenuti vivono in una grande struttura con oltre 20 ettari di aree verdi e agricole.
C’è un enorme giardino con serre e un piccolo parco attrezzato per l’accoglienza delle famiglie, il campo di calcio e perfino un labirinto… come a doversi esercitare a trovare una via d’uscita.
In questo carcere, in ogni caso, ogni detenuto è impegnato in un’attività. Alcuni, in virtù dell’articolo 21, svolgono pure un lavoro esterno al carcere, gli altri sono coinvolti nell’azienda agricola interna e si prendono cura dei vigneti, della stalla e anche delle api. E c’è chi frequenta le lezioni dell’istituto agrario.
Ognuno di loro inizia il proprio lavoro dopo la valutazione delle capacità e dei suoi interessi da parte di una équipe di osservazione, e usufruisce, sia pure con un controllo saltuario del personale addetto, di una graduale autonomia di movimento all’interno degli spazi della sua attività.
Ma qui i detenuti hanno acquisito anche professionalità particolari. Ad esempio hanno imparato a produrre tortellini o a lavorare nella lavanderia industriale. In contemporanea ad una delle ultime visite dell’illuminato arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi, sono arrivate anche macchine impastatrici e piccole presse. Il cardinale li ha voluti esclusivi produttori di ostie per i sacerdoti e le chiese dell’intera Arcidiocesi.
Insomma, qui non si fanno i laboratori, qui si lavora, si produce, si è utili.
Con l’orgoglio dei risultati, la Direttrice sottolinea quanto sia possibile investire economicamente in carcere con imprese che affiancano la finalità del profitto al valore aggiunto dell’attenzione al sociale ed al percorso di recupero.
“Questo è un luogo davvero speciale” racconta Roberto, uno dei detenuti più anziani che lavora nelle serre, in una intervista alla RAI. “Ahimè ho girato molte carceri, ma mai ho avuto l’opportunità di trovarne uno simile, così aperto al territorio e ricco di opportunità lavorative e di studio. Qua entrano spesso rappresentanti delle istituzioni, della società civile, associazioni. Qua è possibile tentare di ricostruire il futuro della propria vita, studiando e imparando un mestiere”.
A volte per cambiare le cose servono delle idee, più spesso servono persone che credono davvero in quelle idee. E le energie, quando tendono alla stessa direzione, prima o poi finiscono per incontrarsi.

E forse è così che si spiega anche la disponibilità a gestire un’attività nell’istituto penitenziario di Castelfranco Emilia, da parte di Roberto Vasarri, esuberante imprenditore toscano atipico e curioso, del settore delle comunicazioni. “Volevo fare il musicista – racconta sempre – ma la vita e le tradizioni familiari mi hanno portato ad occuparmi dell’impresa che dirigo… anche se la chitarra è sempre nel baule della mia macchina”. Da anni gestisce anche call center e così, con una società specifica, la Icall Work Calls YOu srl, ha proposto alla direttrice, complice un comune amico, l’allestimento nel carcere di una decina di postazioni di lavoro e la formazione di altrettanti detenuti, poi assunti come operai telefonici OUT Bond.
Alcuni di essi si occupano del contatto con possibili clienti per i contratti luce e gas ed altri per la telefonia. Allo stipendio mensile i neo operai del call center possono aggiungere i premi che arrivano dalle attivazioni che riescono ad ottenere. Sono circa 150 le chiamate che vengono fatte in una giornata lavorativa e le attivazioni “conquistate”, poco meno delle percentuali che riescono ad ottenere coloro che lavorano nei call center esterni.
“Obiettivamente le performance sono un po’ inferiori, ma qua dentro le condizioni di approccio al lavoro sono assai diverse dall’esterno – commenta Flavio, detenuto quarantenne. Sono moltissime le situazioni avverse. Uno scambio in cella con i compagni, la telefonata con la moglie o con i figli… Basta poco a farti modificare l’umore e conseguentemente anche le tue capacità di dialogo, di convincimento. E l’interlocutore, il cliente, percepisce sempre se sei stanco, sente il tuo malessere”.
Nella giornata assistiamo alla riunione che è in programma con la Direttrice Maria Martone, la Responsabile dell’area trattamentale, Simona Pugliese e Alessandro Inches, il coordinatore del progetto. Per i lavoratori reclusi si chiede di concordare nuove modalità di approccio ma anche pause di lavoro più lunghe per rilassarsi, per diminuire le tensioni. Alessandro è un giovane tecnico e formatore, inviato dall’azienda, con una lunga esperienza di call center maturata prima in Albania poi in Toscana alla GFI di Vasarri e che, praticamente, passa tutta la sua giornata dentro nel carcere. Racconta che i detenuti fanno oltre un mese di formazione e poi lui continua ad affiancarli per consigliarli, motivarli, verificare e migliorare le potenzialità delle loro performance. I contratti proposti, le tecniche motivazionali e di approccio all’utente, per riuscire a convincerlo a cambiare compagnia telefonica o del gas, sono molteplici. Ma a questo si affianca la pazienza, l’utilizzo di un linguaggio corretto nella conversazione, il salutare garbatamente anche quando il potenziale cliente risponde in modo sbrigativo o spazientito. È un lavoro complesso per chi spesso ha vissuto con violenza e con poca scolarità. O forse un po’ per tutti.

“Anche un lavoro esposto a stress e alienazione come quello di un call center, diventa occasione anche di un percorso di educazione.”

Riflettendo capisco che anche un lavoro esposto a stress e possibile alienazione, come quello di un call center, diventa in questo caso occasione anche di un percorso di educazione alla relazione, al linguaggio, alla gestione delle emozioni.
E sorrido quando Alessandro racconta come un paradosso il fatto che alcuni dei ragazzi che devono convincere il potenziale cliente a cambiare telefonino e gestore, in realtà non hanno mai avuto in mano uno “smartphone”, perché quando sono stati arrestati c’erano ancora solo i telefoni cellulari analogici.
Marco, invece, proprio ieri dalla sua postazione telefonica ha superato gli obiettivi con dei risultati eccellenti e sembra davvero soddisfatto. “Adesso ho anche una figlia ed i soldi non sono mai abbastanza” racconta “E poi c’è mio padre che mi incalza di continuo. Da un anno è stato trasferito in questo carcere e siamo in cella assieme… non ero mai stato così tanto tempo con lui!”. Ridiamo tutti e due, quando lo dice.
La famiglia, l’amore, la mancanza dei contatti con gli affetti più cari… Appena ti fermi a parlare e riesci ad entrare un po’ con gli abitanti delle celle è di questo che ti parlano. Sono poche le possibilità di vedere i loro cari, anche se, spiegano, dopo il Covid sono aumentate le telefonate possibili. Sono 12 al mese, e perfino le videochiamate adesso durano oltre un’ora.
È fondamentale permettere al detenuto di non sprecare il proprio tempo, renderlo utile, fare in modo che qualcuno provi ad insegnargli un mestiere, a gestire il proprio comportamento. E allora offrire, magari anche con un lavoro sui gestori telefonici, la possibilità davvero, a lui, di “cambiare contratto”: con la propria vita.
È questa la scommessa di Castelfranco Emilia.
Sono parzialmente soddisfatti anche quelli di Antigone, l’Associazione nazionale che da sempre si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, anche se lamentano che il problema fondamentale resta la prevalenza di internati rispetto ai reclusi in custodia attenuata. Gli internati presentano infatti spesso situazioni problematiche che rendono difficoltose le prospettive di reinserimento sociale. Si tratta di soggetti spesso fragili, talvolta piuttosto anziani e afflitti da problemi cognitivi.
Ma l’Associazione nelle sue attività di monitoraggio ha riconosciuto, al carcere di Castelfranco Emilia l’importante lavoro di valorizzazione, rispetto al passato, degli spazi disponibili per le attività di lavoro interno per le attività formative, oltre che gli apprezzabili risultati ottenuti dallo sforzo organizzativo della direzione e dello staff in collaborazione con il volontariato attivo sul territorio.
Prima di uscire sfoglio ancora i mesi nelle pagine del calendario annunciati da quelle foto che provano davvero a riscrivere il tempo di vite compromesse. Inverno ed estate, come fossero uguali, si continua, con alveari, impastatrici o telefoni, a recuperare e a mettere a frutto semi, anche se fragili e talvolta malandati. Sapendo però che qui, più che in ogni dove, si attende primavera.

Non mettiamo anche la speranza dietro le sbarre

Il carcere, un recinto chiuso, spesso malsano e decadente – almeno quelli italiani – dove una persona è ristretta per espiare una pena e dove circa il 40% dei reclusi è ancora in attesa di essere giudicato.

Un luogo dove per mesi e spesso anni, l’intera giornata dell’esistenza di un individuo si consuma dentro una cella, uno spazio di qualche metro quadrato, con poche e brevi variazioni in altre anguste aree esterne. Un tavolino per tutti, un cesso per tutti, tre-quattro letti a castello. I detenuti che condividono gli spazi sono spesso di età, lingue e religioni diverse. Reati diversi. Può accadere che un ragazzo arrestato per piccolo spaccio con qualche amico o, peggio ancora, in attesa di giudizio, possa trovarsi a trascorrere le sue giornate assieme a sconvenienti “maestri di vita” che con l’inattività, l’ozio e la promiscuità ne compromettano definitivamente le prospettive di futuro. Quasi sempre, ormai è noto, l’esperienza carceraria consolida e incrementa la scelta deviante o criminale. Confondendo e fondendo i reati dell’uno, con quelli dell’altro, il carcere diventa una vera università del delinquere.
A tutto questo si aggiunge anche il fatto che l’istituzione carceraria, attraverso l’isolamento fisico della persona dal contesto familiare e sociale, agisce prima sulla condizione del corpo ma prima o poi, anche sull’equilibrio psico-fisico e sull’identità del detenuto. Il carcere, d’altro canto, è una specie di sequestro di persona. E si può dire che dal sequestro fisico del singolo si arriva inevitabilmente alla soppressione delle sue pulsioni naturali primarie, quindi anche di quelle erotiche e della libido. Questa afflizione aggrava ulteriormente lo stato del detenuto senza procurare alcun vantaggio alla società, semmai l’opposto. Ma questo è un tema ardito e complesso che nel nostro Paese confligge ancora molto con retaggi, religioni millenarie e culture rigide e profonde di difficile soluzione.
A fronte di tutto ciò, almeno il tema del lavoro, all’interno delle carceri, dovrebbe assumere un carattere di priorità. Molte esperienze ormai dimostrano che laddove i detenuti lavorano, svolgono attività di servizio civile, ambientale o sociale i risultati di reinserimento pacifico e produttivo sono altissimi e le recidive rasentano lo zero.
Insomma, abbiamo visto e sappiamo tutto. Ora, cambiamo.

Le carceri italiane, luoghi di riformismo senza riforme

Intervista al Senatore Franco Corleone, già Sottosegretario alla Giustizia e coordinatore nazionale e Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Toscana

Venti anni fa uscì un volume sulla sua esperienza di Sottosegretario alla Giustizia. Era intitolato “La giustizia come metafora” arricchito, nel capitolo sul carcere, anche da una introduzione di Sandro Margara.
A distanza di tempo, qual è il risultato del suo lavoro in tema di carceri che considera più importante?
Ho ripreso in mano quel testo recentemente, raccontava una stagione di riforme, fondamentale l’approvazione del nuovo Regolamento di esecuzione all’Ordinamento penitenziario: “portato in porto da Corleone – non credo che il Regolamento ci sarebbe arrivato senza di lui – con qualche ferita non indolore (l’eliminazione della affettività sopra tutte)”, così annotava Margara.
La Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha istituito nel 2021 una Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario. Anche alla luce di un periodo difficile come quello della pandemia, si intravedono novità che possono davvero cambiare i nodi cruciali del sistema carcere in Italia?
Con ironia Margara metteva in luce il fatto che troppo spesso riforme che non cambiavano nulla, erano definite come elementi di positive contraddizioni, ma che in realtà si trattasse di equivoci. Facciamo chiarezza dunque. È lodevole che dopo 21 anni, il Regolamento risale al 2000, si individuino elementi di adeguamento per aspetti importanti, ma preliminarmente occorre denunciare la non applicazione di tante norme essenziali, al limite del sabotaggio. In un momento crudele determinato dalla pandemia che ha reso il carcere un luogo ancora più chiuso e isolato con l’utilizzo della quarantena e con l’eliminazione di colloqui, incontri e corsi, bisogna evitare il rischio del riformismo senza riforma, dell’imbellettamento su volti deturpati. Alcuni suggerimenti sono preziosi, sarebbe però decisivo che fosse previsto un termine perentorio per la realizzazione.
Si legge però che sono emerse proposte…
Benissimo ma non basta e, soprattutto, è preliminare risolvere alcuni nodi che costituiscono vere e proprie precondizioni perché qualcosa cambi. In questo senso sono imprescindibili le Proposte della Conferenza dei Garanti territoriali per la riforma del carcere. La mancanza di direttori ed educatori ha ormai caratteri grotteschi. Non sarebbe il caso per i direttori di ricorrere alla mobilità nel settore pubblico con incarichi temporanei? Per il personale trattamentale si dovrebbe discutere l’opportunità del passaggio alle Regioni con maggiore legame con il territorio. Anche l’organico della magistratura di Sorveglianza va adeguato e il suo ruolo va riconosciuto come indispensabile.
E veniamo al sovraffollamento. Le carceri italiane sono le più sovraffollate d’Europa, sembra un problema incancrenito.
Non sopporto più l’ipocrisia di chi lamenta il fenomeno senza indicare le cause. La legge antidroga determina almeno il 30% delle presenze per violazione dell’art. 73 (detenzione e piccolo spaccio) e il Governo almeno deve fare propria la proposta Magi sui fatti di lieve entità. Così per il diritto alla affettività e alla sessualità occorre che il Governo sostenga il ddl 1876, predisposto dai garanti e presentato dal Consiglio Regionale della Toscana al Senato. Su queste due scelte si misura la discontinuità e l’immagine di un carcere dopo il Covid. Un decreto legge rispetterebbe le condizioni di necessità e urgenza e corrisponderebbe alla richiesta di voltare pagina. Anche una misura di ristoro, ad esempio la liberazione speciale anticipata, per sanare anche simbolicamente violenze e restrizioni sarebbe indispensabile.
Su questo dunque dovremmo spingere se vogliamo raggiungere risultato concreto?
È ora di concepire soluzioni originali per il lavoro, per la cultura, per l’isolamento, per l’uso della forza, per le mense e i piccoli spacci, per le misure alternative e per la salute. Nello specifico, la salute mentale richiede una cura particolare con misure terapeutiche in luoghi fuori dal carcere. Inutile ripetere che i consumatori di sostanze stupefacenti non dovrebbero stare in galera. Infine sperimentare istituti secondo il modello spagnolo senza polizia penitenziaria e adottare il numero chiuso. Follia? No, prova di intelligenza e ragione.