Zoe, l’anima spezzata come la memoria delle violenze subite
Penso che dovremmo avere un’arma, sempre, con noi. E imparare a usarla. Non c’è altro modo per difenderci. Sono stata aggredita. Era notte fonda, erano in due, dopo avermi bloccata e palpeggiata, sono stata scaraventata a terra, presa a calci e sputi. Tutto per un orologio di alcun valore e poche decine di euro, forse si sono resi conto che non avrebbero avuto il tempo di violentarmi, c’era ancora qualcuno in giro per le strade. Sarebbe potuta andare molto peggio se non fossero intervenuti dei turisti che hanno gridato e sono venuti in mio aiuto». «Litigavamo, come al solito. Poi mi ha spinto giù per le scale. Da quel momento non ricordo nulla, solo di essermi svegliata in ospedale: trauma cranico. Ora sto bene, sono passati alcuni anni. Ho venduto la mia casa e cambiato città. Quella bestia però è libera, non ha fatto nemmeno un giorno di carcere nonostante le denunce. Potrebbe trovarmi e Dio solo sa cos’altro potrebbe capitarmi».
«Ancora non dormo la notte, ho paura del buio e tengo una piccola luce accesa, sul comodino. Ho attraversato una grande depressione e sento di non esserne ancora uscita. Ho retto la situazione per qualche mese, solo per i miei figli. Perdere il lavoro avrebbe significato non poter più sostenere le spese dei loro studi. Ma era sempre peggio, i ricatti erano sempre più infimi… Non ce l’ho fatta più, era tutto schifoso e doloroso, ho denunciato e me ne sono andata. È stato molto difficile perché nessuno mi ha creduto, nemmeno le mie colleghe più care. Credevano avessi una relazione clandestina finita male e volessi solo vendicarmi. Mi hanno dato della puttana e della bugiarda. Hanno salvato lui. Mi sento ancora un verme, impotente, vorrei fargliela pagare, ma non so come fare. Non ho pace, mi ha rovinato la vita».
Marta, 19 anni, Siena; Patrizia, 52 anni, Livorno; Claudia, 36 anni, Massa Carrara, e, infine, Zoe, 25 anni. La incontro a Milano. «Ho perso il bimbo a causa delle percosse. Ho subito due interventi chirurgici per una frattura della mandibola. Le denunce e il regime di protezione non sono serviti, dopo un anno di reclusione ora è fuori e so che insistentemente cerca mie notizie, tortura i miei genitori con chiamate e appostamenti, segue i miei amici. Sono in pensiero per loro, per me, ho paura possa succedere di nuovo qualcosa di grave».
Zoe, a dire il vero, non è il vero nome della donna meravigliosa che ho di fronte. Per la sua sicurezza è preferibile non divulgare alcuna informazione che possa ricondurre alla sua persona. Ho voluto chiamarla così perché, in greco, Zoe, significa “vita”.
“Gli uomini hanno paura che le donne ridano di loro. Le donne hanno paura che gli uomini le uccidano”
Quattro donne, quattro casi simbolici di violenza inaudita. È dicembre. Mentre intervisto Zoe, le ultime notizie in diretta riportano altre terrificanti morti violente: donna uccisa dal marito con una mazza da cricket. «È assurdo come nel 2023 possano ancora capitare queste atrocità nell’indifferenza di tutti, roba da pazzi». Zoe parla poco, a malapena risponde alle mie domande. Tiene il cellulare tra le mani come ad aspettare una telefonata che la salvi dal nostro appuntamento. Le dico che non è obbligata a restare con me e le chiedo se preferisce che ci salutiamo. Dopo svariati secondi di silenzio e sguardo basso, scuote la testa, «No. Resto ancora un po’». Ti va di camminare?, le domando. Finalmente alza gli occhi e mi guarda, accenna un sì con la testa. Passeggiamo senza dirci una sola parola. La seguo, è lei che per più di un’ora dirige passo e direzione verso la fermata di un tram. Prima di salutarci apre lo zaino, prende un’agenda, la sfoglia, strappa cinque pagine e me le porge. «Ti basteranno queste», mi dice, «Leggi, strappa, pubblicale, fai quello che vuoi. E comunque… grazie per aver rispettato il mio silenzio, per avermi capito, perso il tuo tempo con me. Magari un giorno avrai voglia di rivedermi?». Mi saluta con la mano e sale sul mezzo. La vedo scomparire dietro il vetro bagnato, piove come non capitava da mesi.
Torno a casa, mi siedo sul divano e resto immobile con i fogli in mano, indecisa se aprirli o se attendere di incontrarla nuovamente. Ci ragiono su a lungo, ma poi capisco che dietro quel gesto c’è la voglia di aprire un varco, e leggo. Sono righe colme di dettagli raccapriccianti, dolorosi, faccio fatica ad andare avanti nella lettura. È un pezzo del suo diario personale. Non c’è un solo errore, la calligrafia è geometrica ed elegante, ma ogni parola è un macigno. Racconta uno dei tanti episodi di violenza subiti da quello che era il suo fidanzato, svela per filo e per segno la terribile aggressione in seguito alla quale ha perso il bambino sotto una scarica inarrestabile di calci e pugni, spintonate contro i mobili e i muri. Scrive del senso di impotenza, della rabbia, della voglia di vendetta, della paura e scrive anche tanto, tantissimo del bambino che non vedrà mai la luce e che aveva già un nome, una cameretta blu mare e un primo peluche a forma di pesce. Cara Zoe, quante come te. Quante invece non ce l’hanno fatta. Stiamo diventando numeri sempre più crescenti di statistiche oscene: in media, muore una donna ogni 72 ore.
Cara Zoe, sei riuscita a sopravvivere anche se ti dici morta dentro, ma sei viva! Per la vita che hai difeso devi continuare a lottare, devi farlo per te stessa e per tutte le altre, per non sentire più attuali sulla pelle parole come quelle di Margaret Atwood, che dice: «Gli uomini hanno paura che le donne ridano di loro. Le donne hanno paura che gli uomini le uccidano».
Cara Zoe, vedrai, un giorno tutto cambierà.