In Toscana sono arrivate tre calciatrici del Bastan Football Club di Herat, insieme con l’allenatore e pezzi delle relative famiglie. Ne abbiamo incontrata una nella sede di COSPE Onlus, l’Ong fiorentina che ha contribuito a farle fuggire dall’Afghanistan dopo il ritorno dei Talebani. Tra lezioni d’italiano e spicchi di futuro

Halima ha lo sguardo vivace e curioso e questo non è il suo vero nome ma di fantasia; in arabo significa «paziente» e lei lo deve essere, per il suo futuro e per quello dei suoi familiari che sono rimasti in Afghanistan. La incontriamo dopo la lezione d’italiano.
Lei è una delle calciatrici di Herat, giocava nel Bastan Football Club, ed è riuscita ad arrivare in Italia grazie a una rete umana e di intelligence sofisticata, quanto veemente, nel momento peggiore del ritorno dei Talebani in Afghanistan: «Prima del loro avvento la situazione delle donne era migliorata di molto, grazie allo sport, alla formazione e al lavoro, poi tutto è stato azzerato – racconta Halima –. Io nel frattempo avevo iniziato a studiare letteratura inglese all’università ed ero entrata nel giro della Nazionale femminile. Adesso ho tre obiettivi: riunire la mia famiglia, riprendere gli studi e trovare una squadra con la quale giocare a livello professionistico».

“Prima del ritorno dei talebani la situazione era migliorata di molto, grazie allo sport, alla formazione e al lavoro, poi tutto è stato azzerato.”

Halima è un difensore e attualmente riesce ad allenarsi a Firenze,

dove è arrivata dopo essere sbarcata ad Avezzano insieme con altre due compagne di squadra, l’allenatore e alcuni familiari, lì è seguita la quarantena e la vaccinazione anti Covid-19. «Ho iniziato a giocare a calcio da piccola, la nostra cultura e la mia famiglia non erano molto d’accordo con questa scelta, ma mio padre mi ha supportata e non ha permesso che altri mi fermassero. Ho giocato anche a pallavolo con la scuola, ma il calcio è il mio sport, quello che mi ha dato e mi dà più motivazioni. Poi a Herat, un uomo e una donna, hanno fondato la squadra e così ho iniziato, nonostante mancassero strutture e indumenti adatti per allenarsi e giocare. In città non avevano una buona opinione su di noi, per fortuna, però, non tutte le famiglie sono uguali. Poi sono arrivati i Talebani e hanno iniziato a interrompere i nostri allenamenti, così abbiamo iniziato a giocare di nascosto, finché non sono andati a cercare le calciatrici casa per casa, facendo arrivare lettere di minacce ai nostri familiari».

“Spero che le cose migliorino per tornare in Afghanistan, ma prima vorrei poter terminare gli studi e giocare a calcio in una squadra professionistica.”

Halima, tra gli altri, ha lasciato a Herat due sorelle e un fratello: «Quando i Talebani non ci saranno più le persone saranno al sicuro, fino ad allora no. Io spero che le cose migliorino per tornare in Afghanistan, ma prima vorrei poter terminare gli studi e giocare a calcio in una squadra professionistica. Il mio giocatore e la mia giocatrice preferiti? Sicuramente Cristiano Ronaldo e Sara Gama. È stato emozionante incontrare le calciatrici della Nazionale italiana a Coverciano, prima non le conoscevo e avere passato del tempo con loro ha rafforzato la mia convinzione che il calcio è la mia vita, mi fa stare bene e mi motiva ad andare avanti. Giocare con l’hijab? Per me è naturale», perché c’è pure una cultura da rispettare e delle radici che non possono, devono, essere recise.
Adesso ci sono le lezioni di italiano, gli allenamenti per tenersi in forma e una vita da reinventare lontano da casa, con la consapevolezza di chi ha fatto qualcosa per loro e di chi, invece, nonostante palcoscenici prestigiosi non ha fatto niente, come Nadia Nadim, afghana naturalizzata danese che gioca nel Psg; mentre un’altra calciatrice afghana, di cui non possiamo fare il nome, ha aiutato le ragazze di Herat a fuggire in Pakistan per sfuggire ai Talebani, salvandogli, momentaneamente, la vita.
Halima ha anche stretto la mano del presidente afghano Ashraf Ghani, dopo avere vinto il campionato nazionale con la propria squadra. Ma per sfuggire ai Talebani sono altre le mani che ha stretto, prima quelle dei militari italiani di stanza all’aeroporto di Kabul, poi quelle di COSPE, la Onlus che si è attivata, insieme con il giornalista e scrittore Stefano Liberti, contattato direttamente dalle calciatrici dopo che, raccontando i progetti sostenuti da COSPE in Afghanistan per Internazionale, aveva realizzato il docufilm Herat Football Club, e la Farnesina. Il simbolo per farsi riconoscere al checkpoint dell’aeroporto era un fazzoletto bianco, la parola d’ordine per superarlo: «Tuscania». Perché non sempre il calcio è l’esperanto che apre tutte le porte, in alcuni Paesi è uno stigma, soprattutto se declinato al femminile.

Parola d’ordine Tuscania!

«Siamo entrate in contatto con le calciatrici di Herat quando avevamo il progetto aperto lì, perché alcune calciatrici avevano ricevuto delle minacce, già nel 2015-16, e si erano rivolte ai nostri uffici; in quelle zone la presenza talebana non era mai sparita e inoltre la società è molto conservatrice e in generale le attività che prevedevano una maggiore libertà delle donne non erano ben viste; tutte quelle attività che andavano oltre l’immagine della donna tradizionale a casa con i figli. Con noi, all’epoca, c’era un giornalista (Stefano Liberti, ndr) che era rimasto in contatto con molte giocatrici: queste hanno contattato anche lui, oltre ai nostri collaboratori, e insieme abbiamo fatto una lista di persone che conoscevamo e l’abbiamo trasmessa alla Farnesina per evacuarle. Per farsi riconoscere come il gruppo ‘italiano’, nelle quarantotto ore più drammatiche vissute all’aeroporto di Kabul, dovevano sventolare un fazzoletto bianco e gridare la parola d’ordine: Tuscania, dall’omonimo reggimento. Sono stati momenti drammatici e difficili e alla fine non tutti ce l’hanno fatta: sono riuscite a partire 42 persone su 65 della lista. Tutte le ragazze della squadra erano partite da Herat ventiquattro ore prima, ma le rappresaglie erano già iniziate e un familiare è dovuto tornare indietro per motivi di sicurezza. Alcune ragazze sono venute con parti della famiglia e altre da sole, sono arrivate a Fiumicino e poi mandate in posti diversi per la quarantena; infine abbiamo provato a farle venire tutte verso Firenze, trovando la collaborazione attiva del Comune e della Caritas. In Toscana, attualmente, ci sono tre calciatrici, l’allenatore e parti delle loro famiglie. COSPE Onlus le segue per i corsi d’italiano e il riconoscimento dei titoli di studio, per aiutarle a riprendere gli studi», conclude Anna Meli. (F.C.)

COSPE Onlus, insieme per cambiare

«COSPE – ci racconta Anna Meli, direttrice della comunicazione – è un’organizzazione non governativa che dal 1983 si occupa di cooperazione internazionale e di temi legati alla migrazione, si trova in 25 Paesi del mondo con circa 70 progetti a fianco di migliaia di donne e di uomini per un cambiamento che assicuri lo sviluppo equo e sostenibile, il rispetto dei diritti umani, la pace e la giustizia tra i popoli. In Italia ci occupiamo di inserimento sociale dei migranti, minori e di attività culturali nelle scuole contro i discorsi di odio e la discriminazione. La Toscana rispetto ai temi dell’accoglienza è sempre stata un luogo di sperimentazione, qui c’è un tessuto associativo rispetto a volontariato e solidarietà ben radicato e strutturato». Ovviamente i fari dei media sulle aree di crisi, a volte accessi, più spesso spenti, influiscono sul ‘sentiment’ dell’opinione pubblica. «Raccontando i Talebani come nemici dell’Occidente – ribadisce Anna Meli –, in relazione pure ai diritti delle donne e dei minori, la reazione è stata massima. Noi, però, operiamo anche in zone del Sahel dove la matrice islamica estremista è presente eppure non scattano gli stessi meccanismi, forse perché l’Africa è considerato un continente povero e senza speranza». (F.C.)

Dieci anni di Afghanistan

COSPE Onlus è stata in Afghanistan dal 2008 al 2019, fino a quando le condizioni di sicurezza lo hanno permesso: «Avevamo un programma che lavorava a fianco di due associazioni: una di avvocatesse e un’altra che si occupava dell’inserimento sociale lavorativo delle ragazze e delle donne – spiega Anna Meli, direttrice della Comunicazione di COSPE Onlus –. Un altro, invece, impegnato sulla mediazione e acquisizione dei diritti e sulla protezione e tutela delle vittime di violenza, spesso domestica ma non solo. Con il primo abbiamo costruito delle case rifugio a Kabul e Herat e fatto un’operazione sulla mediazione con le famiglie su casi legali, come il divorzio. Il secondo, invece, mirava a sostenere i diritti umani e abbiamo creato dei punti di riferimento in 34 province dell’Afghanistan per chi veniva minacciato a vari livelli: dall’insegnante che si batteva per far andare i bambini a scuola al giornalista della radio locale che voleva continuare a lavorare; un attivismo diverso da quello a cui siamo abituati, fatto da persone che per svolgere il proprio lavoro quotidiano si trovavano a ricevere minacce. Avevamo creato dei protocolli e dei luoghi per la protezione di questi attivisti, così, con l’avanzata dei Talebani verso Kabul nell’agosto scorso, queste persone ci hanno contattati perché si sentivano in pericolo per via delle loro attività; anche se i nostri uffici erano già stati chiusi nel 2019 per motivi di sicurezza, perché c’erano attentati continui e siamo dovuti venire via. Ma eravamo rimasti in contatto e ci siamo attivati per l’evacuazione».(F.C.)