Dalla Siria alla Libia fino in Calabria: il dramma del giovane curdo

Gli occhi sono lo specchio dell’anima e non sono capaci di mentire. Ecco, quando a Camini, nella sede della cooperativa Jungi Mundu (Unisci il Mondo) ho incontrato Zakaria, la cosa che mi ha colpito di più sono stati i suoi occhi intelligenti, profondi, neri. La mascherina chiara e la camicia bianca ne esaltavano, assieme alla pelle scura, colore e intensità facendo sembrare, al tempo stesso, che raccontassero smarrimento, dolore, rabbia, ma anche coraggio.
Neppure venticinque anni ha Zakaria, ma appena comincia a raccontarmi del suo viaggio infinito per arrivare in Italia, degli amici e dei parenti curdi uccisi nelle guerre perenni dell’antica Mesopotamia, mi ferisce e coinvolge assieme. Giovanissimo, ma è come se a raccontare fosse un saggio e vecchio partigiano.
Nato ad Afrin, nel nord della Siria, terra di Curdi sotto l’amministrazione siriana di Aleppo, Zakaria ha vissuto sin dalla nascita il desiderio di autodeterminazione del suo popolo fiero e carico di cultura e storia e, contemporaneamente, l’orrore della sottomissione violenta. “Ho visto mio zio impiccato e quasi tutti i miei cugini rimasti in Siria, morire per le repressioni dei bombardamenti turchi contro i curdi o nei combattimenti contro l’Isis”, racconta Zakaria, con lo sguardo che improvvisamente si fa cupo. Data la situazione, lui e la sua famiglia sono costretti ad abbandonare casa, beni, amici e parenti per salvarsi dai genocidi. Una fuga di notte, ammassati insieme a tanti altri su un camion diretto in Libia, terra che sembrava essere un luogo sicuro e dalle buone opportunità economiche. Mentre il veicolo macina chilometri nel buio di strade insicure, ognuno a suo modo vive e condivide terrore e strazio. Zakaria, ben nascosto, mangia polvere e sogna già il ritorno.
Si stabiliscono tutti a Tripoli, dove il padre, ingegnere, ricomincia con una attività nel settore dei prefabbricati in cemento per l’edilizia industriale. Il lavoro va bene, tanto che riesce ad aprire uno stabilimento anche in Siria. E tutto sembra andare nella direzione giusta. A Tripoli, Zakaria, frequenta il liceo, poi vorrebbe fare il medico.
Ma il 2011 e la primavera araba scombinano ogni cosa in tutto il Medio Oriente. Vengono abbattuti dittatori e cambiati i Governi. La Libia e la Siria sono sicuramente tra i Paesi devastati dalle maggiori turbolenze. L’essere umano viene annullato, ridotto a carne da macello da sfruttare per soldi. Continuano a cambiare i conflitti, ma non le violazioni dei diritti umani.
Per i curdi e per la famiglia di Zakaria si prospettano solo nuovi drammi e ancora fughe. Prima i fratelli più piccoli, poi i genitori e infine Zakaria, che deve anche abbandonare alla facoltà di medicina libica alla quale era riuscito ad iscriversi.
Il padre ha amici a Tripoli, ma anche nella polizia ed al porto. Grazie a questi contatti Zakaria trova una vecchia e sgangherata nave a tre piani per imbarcarsi, così come, tempo prima, già aveva fatto il resto della famiglia. Il suo viaggio comincia durante una fredda notte di primavera del 2019. Nello zaino c’è tutto quello che ha e che può portare con sé: documenti, qualche foto dei familiari, il suo computer, i soldi. “Eravamo circa quattrocento persone sulla nave, inclusi donne incinta e bambini. Ci hanno ammassati sulla traballante imbarcazione e quando il sole albeggiava siamo partiti” racconta. Le prime ore scorrono abbastanza tranquillamente anche se c’è chi piange, chi vomita ed i pochi bagni sono diventati subito inservibili. Con il passare del tempo aumenta il vento e le onde cominciano ad alzarsi, diventano sempre più grosse e fanno oscillare maledettamente il barcone. Anche le persone vacillano da una parte all’altra, rendendo la stabilità sempre più incerta. A bordo il panico aumenta, saranno passate quindici, sedici ore dalla partenza. Pianti disperati, preghiere e ancora vomito e altro ancora.

“Battevo i denti dal freddo e abbracciavo stretto stretto il mio zaino. Di lì a poco la barca non avrebbe retto alle onde.”


Qualcuno sostiene che la rotta sia stata smarrita e che forse occorra ripiegare sulla Tunisia, altri invece invocano Lampedusa. “Ero disperato anch’io” continua Zakaria “Battevo i denti dal freddo, ero tutto fradicio e abbracciavo stretto, stretto il mio zaino. Di lì a poco la barca sembra non reggere più alle onde, al vento e soprattutto alle persone che nel terrore non riescono a stare ferme. Poi un grande schianto, come ci fossimo infranti in uno scoglio”. Urla e onde si confondono nel racconto di Zakaria ma a quel punto dice di non aver sentito più il freddo e la paura, neppure quella della morte. Passano istanti infiniti, il vuoto assoluto, l’incubo. Si accorge di essere accanto ad altri disperati, abbraccia quello rimasto solo e poi, alla fine, si trova assieme ad altri disgraziati aggrappato al relitto capovolto. Attorno vede corpi che galleggiano e altri che gridano e si agitano. Un ricordo indelebile per Zakaria, apocalittico e straziante.
Solo quando vengono raccolti dai volontari e issati sulla nave della ONG che li porterà in salvo si accorge di non avere più il suo zaino, i suoi documenti, il computer, i soldi. Ma è salvo. È salvo dopo essersi affacciato all’incubo dell’inferno.
Lo aspettano giorni di Centri accoglienza putridi e sovraffollati, poi ancora randagio e senza documenti. Passaggi di fortuna, treni, pullman e ancora camion e treni. Un viaggio che sembra infinito. Finalmente arriva a Camini, un piccolo paese abbandonato della Calabria, a una manciata di chilometri di Riace. Qui una solida cooperativa sociale del terzo settore, nata per favorire l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, fornisce anche un servizio di accoglienza ai migranti ed ha come obiettivo principale quello di garantire l’indipendenza e l’integrazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Ispirandosi un po’ a quanto hanno visto fare al Sindaco Mimmo Lucano a Riace, hanno aperto laboratori di ceramica, tessuti, liuteria, doposcuola e svolgono attività di recupero dei terreni abbandonati per produrre olio, vino e grano biologici. All’interno del bar-ristorante Jungi Mundu si tengono perfino corsi di cucina locale e siriana. Zakaria, grazie alle cinque e più lingue che parla, svolge attività di mediazione tra i migranti e si occupa di fare accoglienza ai visitatori.
Ma i suoi occhi, quando parla, sembrano comunque raccontarti il suo desiderio di raggiungere la sua famiglia e continuare a studiare medicina. E magari, di poter tornare nella sua terra per aiutare e curare il suo popolo ferito e martoriato.
(E.B.)

“U ciuccu chi vola”

“Siamo abituate a spingere, non a respingere”. È la scritta felice che svetta sui carretti di legno costruiti dai rom e trainati ogni giorno da Rosina e Rosetta, le asinelle che portano sulla schiena bellissime gerle per separare carta e plastica dagli altri rifiuti. Il Sindaco Lucano si è inventato un servizio di raccolta porta a porta gestito con gli asini. A Daniel, che arriva dal Ghana, chiede di andare nelle case a spiegare come si separano i rifiuti. Ad accudire gli asini invece ci penserà Biagio, calabrese con alle spalle una vita fatta solo di povertà e sfruttamento. Fuma e parla appena Biagio, ma il Sindaco lo nomina capo degli asini, un ruolo importante, che lo rende orgoglioso e per il quale viene finalmente pagato. Biagio deve pulire le stalle e gli asini, accompagnarli ogni mattina a lavorare. Gli animali lavorano a giorni alterni e portano al massimo cento chili sulla schiena. È così che funzionava la raccolta dei rifiuti a Riace, con una gestione affidata ad una piccola cooperativa locale. Adesso sono scattati i sigilli per Rosina e Rosetta. E adesso che Biagio se n’è andato con la moglie in Bulgaria, e neppure le scolaresche vanno più a trovarli, i ciuchini pascolano inattivi, tristi e soli, nella bella fattoria didattica oramai sequestrata.